Mattia Candiotti Istanbul Diary www.mattiacandiotti.com   

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Istanbul 2011
Diario di un viaggio




             Sabato 30 aprile - day 0 - l’arrivo

22.55

Sono stordito.
Confuso.
Ho in testa una vertigine di pensieri.
Ho l’eccitazione del nuovo. Ho nuove cose da vivere e vedere, da
scrivere e fotografare. Ho cose che ho lasciato lontano.
Ho con me un diario, una penna, una cartina, una dettagliata guida
della città e qualche macchina fotografica.
E sete, una maledetta sete.
Ma ho appena ordinato una birra e un cheeseburgher in un ibrido fra
un cafè e una steckhouse di una piccola e stranamente tranquilla
stradina satellite dell’Istiklal. La Kurabiye Sokak.
Parte un pezzo che conosco. Michael Jackson, “beat it” credo. Mi
tranquillizza. Ascoltare o vedere qualcosa che conosco, che fa parte
di me quando sono in un posto straniero, quando sono arrivato da
poco, mi dà un senso di pace. È scontato ma mi fa sentire un pò a
casa, o comunque più vicino.

Sono seduto a un piccolo tavolino di legno
all’esterno del locale, un posto accogliente.
La cameriera mi porta la birra e delle patatine
con delle crocchette dentro.
Un servizio fantastico, penso.
Nel menù c’erano solo le patatine che
accompagnavano il panino.
Infatti arriva il cameriere e me le porta via. Non
erano le mie.
Va beh.


Mentre attendo ripenso alla mia giornata.
Sono a Istanbul.
Sono appena arrivato e già mi è difficile raccogliere i pezzi.

Parte “Pretty Woman” di Orbison - siamo in pieno
occidente.

Ho lasciato Angi e quella cosina dentro di lei che
porta teneramente con sé e che non ha ancora un
nome, questa mattina, in aeroporto a bologna, verso
le 12.30 e alle 13.20, puntuale, sono partito.

Atterro a Istanbul Ataturk dopo aver sorvolato la
città, il bosforo e il corno d’oro, incastonato in
una fittissima rete di tetti e strade. Ha proprio
la stessa forma che ha su Google maps. Ho in cuffia
il quarto movimento della Nona di Beethoven, parte finale della
sinfonia, un tripudio di trombe e tromboni, archi e fiati, e potenti
voci che alternano durezza e beatitudine sulle celestiali note
dell’inno alla gioia proprio mentre scendiamo di quota e la città
apre i suoi spazi. Il sole intanto si ravviva e tenta squarci fra le
nubi. Leggo tutto questo come un segno. Ci vorrebbe un bicchiere di
latte più, ma la Turkish ha solo succhi di frutta e coca cola.
Tocchiamo terra alle 16.15. 17.15 ora locale.

Scendo per ultimo dall’aereo - me la prendo con
calma - e mi dirigo a ritirare il mio bagaglio, una
sola valigia, ma molto pesante per il cavalletto e
la testa che contiene. Passaggio obbligato al
controllo passaporti dalla fila lunghissima. La mia
valigia è già sul rullo, la prendo e vado verso
l’uscita, passo al cambio dove prelevo circa un
centinaio di Lire Turche - 50 euro - e esco. Sento
per la prima volta l’aria della città.
Mi accendo voglioso una bella e mal-sana sigaretta.


Durante il volo avevo letto sulla mia guida che dall’aereoporto di
Ataturk c’è un autobus che porta direttamente a
Beyoglu, ma io voglio subito provare i mezzi
“usuali”, perciò scendo giù a prendere la metro, che
alterna tragitti sotterranei a tratte urbane fino a
Zeytinburnu, dove cambierò con la linea urbana che
mi porterà direttamente a Sultanahmet, a Eminonu,
attraverserà il famoso ponte di Galata e arriverà a
Karakoy, dove mi fermerò. Il mio hotel dovrebbe
essere poco distante.
Acquisto un gettone alle casse automatiche - 1.75
Lire turche - e parto.

Dall’aereoporto il vagone è praticamente vuoto, ma
si riempie nel giro di poche fermate. Dopo il cambio
a Zeytinburnu, dove scatto la mia prima foto della
città con un immancabile minareto, il tram è
stipato.
C’è ressa, dentro e fuori.


Lungo il tragitto vedo alla mia sinistra un grosso complesso di
palazzoni alti, quasi dei grattacieli. Mi pare si ergano in mezzo al
nulla e sono tanti e tutti uguali.

Mi ripropongo di tornarci per fotografarli. Mi appunto il nome della
fermata, appena fuori dalle mura di Topkapi: Cevislibag.
Seduta davanti a me c’è una coppia che cattura la mia attenzione.
Lei evidentemente più grande di lui, sulla quarantina, sembra di
origini sud-est asiatiche. Sono teneri, amorevoli. Parlano vicini,
sussurrandosi. Sono molto composti.
A dire il vero noto che tutti intorno a me sono molto composti.
Composti e silenziosi. Tutti, turisti a parte, bambini compresi.

Devo essere arrivato in centro. Fuori dai vetri del tram c’è
brulichio, una folla continua, ovunque.
Il tram inchioda in una frenata fortissima rischiando decine di
vittime dentro il mio vagone (il tram passa al
centro della via e in mezzo alla gente!) ed ecco
che gira a destra su un ponte, non può che
essere lui, il Galata Bridge.
È lui. Sto attraversando per la prima volta il
corno d’oro. Un’altra fermata e sono a Karakoy.
Scendo per proseguire a piedi verso l’hotel.
A piedi o in taxi, mi dico. Sulla Lonely Planet
la via del mio Hotel non è segnata, ma ricordo
più o meno dove si trova. Saranno circa 600
metri sulla sinistra rispetto alla fermata.

Ma scopro subito una grande verità. Istanbul è
in salita. Anche in discesa si, ma per il
momento solo in salita. Qui le faglie terrestri
si sono date da fare.
Praticamente è montagna.
Questo la cartina non me lo aveva detto.

Addosso avrò circa dieci chili di zaino più una tracolla con libri e
quant’altro non era entrato in valigia, più una valigia, su ruote,
dal peso testato al check-in di 18,9 chili.

Decido di andare a piedi. Mah si!
Dopo 5 minuti di salita sono però già
stremato. In un tratto particolrmente ripido
un tassista compassionevole mi chiede se
voglio un passaggio. Certo.
Mi chiede dove, gli mostro la via sulla
cartina ma lui mi risponde che è meglio se
continuo a piedi, visto che sono altri 200
metri, mentre in taxi dovrebbe fare un lungo
giro. Non vale la pena, mi spiega. Dio mio, ho
beccato un tassista onesto!
La salita si fa ancora più dura. E poi ancora
di più. Che nemmeno Messner. Ah!
L’ultimo tratto è insostenibile. Ciottolato. Mi devo fermare a
tirare fiato. Riprendo.
Ecco, ci sono, svalico. E, inaspettatamente, sono travolto da un
fiume - un fiume! - di gente.

 

È l’Istiklal. Devo farle una foto. È un torrente umano. La Ramblas
all’ennesima potenza. Ok. Devo raggiungere l’hotel. Ci arrivo dietro
indicazione di un altro gentile tassista, è proprio a due passi.

Il Monopol Hotel è parecchio scrauso, con la sua patina marroncina
anni ’60, ma si trova in una bella posizione, stretto fra hotel di
lusso in una rispettabile via che guarda il Corno e le principali
Moschee.

Il portiere mi sembra un po’ lesso, mi
chiede se arriveranno i miei colleghi -
io sono a conoscenza solo dell’arrivo di
Klemens a dire il vero - e mi fa
accompagnare in camera dal facchino.
7° piano.
La stanza è molto piccola, ma ho un
letto matrimoniale e una grande, tripla
finestra sul panorama del Corno d’oro.
La vista è stupenda.
Mi ci soffermo e mi lascio scappare un
“wow” mentre il facchino mi mostra,
aprendolo, il frigo bar che non
funziona.
Boh. Lascio perdere e lo ringrazio.

Faccio subito la prima cosa da fare quando si arriva in un nuovohotel. Accendo il computer e provo la rete.
C’è.
È già qualcosa.
Scatto una foto del panorama che condivido con mio fratello in chatsu Skipe e con Angi via mail.
Tento anche di postare qualche foto sul mio blog ma la connession
ewireless è un rudere, lentissima e ballerina, va e viene.
Così lascio perdere, mi preparo velocemente, prendo la G12 e esco
sull’Istiklal Caddesi. È un delirio.
Il viale è gremito, più di prima se possibile, quasi tutti ragazzi.
Al di là dei vari negozi, soprattutto note
catene low cost e marche famose dal target
giovane. Nelle vie laterali ci sono decine e
decine di locali, ristoranti, pub, fastfood,
cafè, tutti con tavoli in strada e
musica e luci da richiamo che nemmeno a
Disneyworld. Locali tipici con narghilé ,
dove si gioca a backgammond sulle scacchiere
già disposte su ogni tavolo e si beve il
famoso “Cay”, il té orientale.

La via è assordante, psichedelica e
trascinante.
Ogni tipo di locale per ogni tipo di gente.
Passo in una stradina dove c’è un pub hard rock ritrovo di
chopperisti tutti rigorosamente in chiodo. E in moto. Fantastico.

Anche se, con tutta questa confusione, la mia stanchezza si fa
sentire. Imbocco allora una via laterale alla ricerca di un posto
tranquillo dove mangiare qualcosa, bere una birra e scrivere di oggi.


Eccolo qua. Il Teorito Café.
La cameriera mi accoglie sorridente e un po’ timida. È carina.
Le patatine non erano né salate né scolate, ma l’hamburgher era
ottimo e questo Raki fresco e potente.
Eccomi qua.
Ho visto poco. Ma abbastanza per dire che Istanbul è piuttosto
grande, creativa, molto frenetica e, nonostante il suo profumo
d’oriente, occidentale.
E in salita.



   Domenica 1 Maggio - day 0 - l’arrivo

02.35

Dopo due ore di prove per caricare qualche foto
sul blog vado a letto, che è tardi.
Appunto però che non ci sono riuscito.
La connessione che ho a disposizione è pessima.
Vi dico poi che mi sono imbattuto nella censura
turca del web.
Internet è limitato.
È impossibile accedere a peer to peer e file sharing e anche
visualizzare alcuni contenuti in streaming.
Il porno è completamente oscurato. Qualsiasi accesso porta a una
pagina di violazione del governo turco che rimanda alla legislazione
vigente in materia.
Buonanotte.

       

         







           domenica 1 Maggio - day 1 - Il 1° Maggio

13.30

<< questa mattina il fatto di abitare nel quartiere del divertimento
si è fatto sentire: sono stato svegliato alle sei e mezza da un
gruppo scatenato di ragazze che urlavano sul mio pianerottolo. >>

Mi sveglio - poi, saranno le 8.30 - con il forte baccano che arriva
dalla strada. Refik Saydam Caddesi è piena di
gente.
Striscioni, bandiere e cori cadenzati completano
il quadro.
C’è una manifestazione. La manifestazione del 1°
maggio.
Una infinita colonna di folla urlante si sta
dirigendendo verso piazza Taxim.

Mi alzo, preparo l’attrezzatura, compreso il
materiale da architettura, e esco.
Oggi è il mio primo giorno effettivo a Istanbul.

Al di là delle prime impressioni di ieri, oggi posso scoprire di piùsul vero “spirito” della città.

Istanbul è grigia. Pare anche con il sole.
Il cielo è carico di umidità e foschia. Questa impressione confermal’idea che mi ero fatto guardando le foto di Basilico e Iodice e dialtri fotografi che ci hanno lavorato.
Attraverso la strada del mio hotel e raggiungo, oltrepassando uncordoglio di poliziotti in antisommossa, la via di grandecomunicazione, percorsa anche dai manifestanti, che conduce a Taxim.

Scoprirò poi che il distretto è blindato, sono centinaia, anzi
migliaia, uno spiegamento che non avevo mai visto né immaginato
prima.

Arrivo alla piazza.
Invero non so a cosa si deve questa manifestazione, non so nulla al
riguardo, ma sono certo che sia tutt’altro che rituale, è anzi molto
viva e sentita.
Lo spiegamento di forze è inconcepibile.
Sembra una guerra.
I manifestanti sono per lo più ragazzi. Molti di
loro sono armati di megafono e lo usano.
Tutti hanno una bandiera.
Piazza Taxim è chiusa, blindata da centinaia di
enormi e pesanti transenne d’acciaio che non
riesco a immaginare quante persone siano state
necessarie per montarle.
Non posso fare foto alla manifestazione, non ci
riesco. Sono fuori dai recinti contenitivi e non
mi è possibile salire in qualche punto rialzato
come le terrazze dei locali che danno sulla
piazza.


Al contrario fare foto ai poliziotti è facile.
Sono ovunque.
I loro pullman, normalissimi autobus di linea
gentilmente prestati dall’azienda dei trasporti,
sigillano le strade del perimetro.
Si fanno fotografare, i poliziotti dico.
Si cercano, si abbracciano, formano gruppi e
sorridono. Neanche fossero in vacanza. Amiconi.
Credo che tutto questo assemblamento sia
inusuale anche per loro.

Comunque io gironzolo un po’ attorno poi mi fermo in un kebab a
mangiare qualcosa e a fare il punto della
situazione e del mio lavoro di oggi.
È qui che scrivo queste righe.
Un piccolo kofte-restaurant in una traversina di
Osmanli Sk.
Su ogni tavolo ci sono già le bottigliette
chiuse di acqua minerale e un barattolo con
cetriolini sott’olio.
Ordino un Adana Kebap. Buono.
Sto mangiando, e senza dire una parola il
cameriere si avvicina al tavolo, prende il mio
pacco di sigarette in mano e ne sfila una.
Così. Senza chiedere. Io lascio che sia,
ovviamente.
Sono dei burloni questi turchi.
Poi mi offrirà spontaneamente 3 ottimi Cay
continuando a portarmeli mentre scrivo.


22.00

La manifestazione sta finendo. Sono le 15 circa.
Ragazzi e ragazze iniziano a spargersi per le
strade. Megafoni e bandiere.
Bandiere che tutti avvolgono con sacchi di plastica nera, non so se
per proteggere le bandiere o loro stessi da qualche rappresaglia o
fermo di autorità.
Il quartiere in questo momento è molto bello.
È carico di energia, un’energia positiva.
Per le strade gira un ideale.
Peccato io non sappia quale sia. Ma è lo stesso.
Un ideale condiviso e sentito da così tanti volti, felici mentre
continuando a dibattere cercano posto nei tavolini dei bar, non può
essere che giusto, soltanto per il fatto di esistere.
Tutto questo mi contagia e vago per il quartiere con il mio
cavalletto vedendo il bello intorno.
Sapete quel particolare stato d’animo che irradia di positività il
vostro sguardo?
Anche un sole più caldo e potente decide di uscire dal suo torpore.
Cambia la luce.
Trovo un piccolo spiazzo sulla mia sinistra, è deserto. Deve essere
l’atrio di una scuola, credo, o qualche sorta di centro culturale.
Entro per fotografarlo.


Mi sembra una bella foto.
Mi prendo il mio tempo, lavoro con lentezza.
Apro e fisso il cavalletto, scelgo a grandi linee il punto di vista,
preparo la macchina, inquadro, decentro e espongo.
Mi ci vuole un po’.
Beyloglu è raggiante. Mi sento in un tempo che non ho mai vissuto,
fatto di speranze e di ragazzi che credono in qualcosa. In italia
questo non c’è. Se c’è io non l’ho mai toccato con mano, purtroppo.

Bene. Così pensando decido di lasciare il centro di Beyloglu per
andare sulla sponda del Bosforo, a Galata, sul porto. Così scendo,
scendo a est.

Percorro la ripida discesa che porta verso la fermata di
Tophane (detta anche la ripida salita del mio arrivo) e
sulla via scatto qualche foto veloce al paesaggio e ai
palazzi. Sono in controluce e c’è tridimensionalità.

Arrivo a Tophane e cammino sulla costa. Qui i grandi palazzi
dalle facciate razionali sono tutti chiusi, ma ugualmente
affascinanti. Alcune fabbriche marittime in disuso li
intervallano, c’è un cantiere navale, due compagnie
marittime, due stazioni di polizia.

Sulla facciata di un parcheggio sopraelevato sono affissi i
cartelloni pubblicitari di “Istanbul capitale della cultura 2010”.
Sarebbe ora di toglierli, penso. Creano un effetto contrario.

Arrivo ai margini del ponte di Galata. Del ponte e dei suoi
pescatori.
La pesca sul ponte è ormai una faccenda rituale.
Il pesce lì sotto non dev’essere di una gran purezza, viste tutte le
barche e i traghetti che attraversano lo stretto!

Però ho letto di come il balik elmek - il panino con il pesce
grigliato dalle bancarelle sul ponte - sia un must. Da provare.
E io lo provo.

Non sarà questo a farmi fuori, mi dico.
Visto che ci sono lo farcisco anche con uno di quei grossi
peperoncini verdi piccanti.
Si. È d’obbligo. Dev’essere il mercurio che gli dà questo sapore
particolare. È buonissimo.

Gusto con calma il mio rito turistico mentro
guardo centinaia di persone che fotografano
centinaia di persone che pescano.

È vero che sono contrario alle foto scontate, ma
ce ne sono alcune che non si possono evitare, e mi
unisco alla massa.



Attraverso il ponte.

Ma prima una scena.
Una ragazza, ben vestita e tutto, si avvicina a
una fioriera dove c’era un mezzo bicchiere di
succo d’arancia che era lì, fermo dimenticato,
solitario da tempo. Io ero lì da circa un quarto
d’ora e quel bicchiere è sempre stato lì. Insomma
lei arriva, si guarda in giro, fa un cenno a una
signora che gli sedeva accanto come per dire “è il
suo?” poi lo afferra e lo beve.
Eh, la sete.

Lungo il ponte mi stupisco con gli ambulanti che
per poche lire platificano documenti veri e falsi
- come si può non avere una patente turca? - e poi
per la pesca.
La pesca è strana. Non c’è esca.
Gli ultimi metri della lenza sono cosparsi di
grossi ami e il finale è un grosso piombo.
La pesca consiste nel lanciare sul fondo proprio
sotto il ponte, aspettare che si stabilizzi la
lenza e quindi alzare e abbassare la canna
ripetutamente fino a che un amo non incontra un
pesce per sbaglio.
Poi si recupera per una decina di metri nel vuoto
lo sventurato pesciolino.
Allora, siccome questi pescano a distanza di una
bracciata l’uno dall’altro, il vero sport consiste
nel districare gli innumerevoli nodi delle lenze
che inevitabilmente si creano quando queste si
toccano, vuoi durante il lancio, vuoi durante i
continui movimenti della pesca o nel recupero
della preda.
Probabilmente questa finta complicazione aiuta a
socializzare. Forse è questo il vero motivo per cui
si imbraccia una canna sul ponte di Galata.
Non certo per quei piccoli pesciolini che si tirano su, penso.

Arrivo a Eminonù.
È un brulichio di gente.
Centinaia di turisti e lesti commercianti, e tra questi tanti
bambini, affollano gli spazi.

Inizio a essere un po’ stanco e tutto questa
confusione mi tocca. Il sottopasso del ponte è un
vero delirio.
Sono venuto qua per concludere la mia passeggiata
e per cercare un quaderno caratteristico da usare
come diario, ma fra centinaia di occhiali, scarpe,
rasoi e piccoli aggeggi elettrici, giocattoli,
telecomandi per ogni tipo di tv mai prodotta e una
moltitudine di tutto e niente, non lo trovo.



Esco dal sottopasso, faccio un giro del primo
isolato dove c’è un vasto mercato a terra,
riprendo il sottopasso, la metro, e torno diretto
a Tophane.
Sono circa le 8 di sera.
Risalgo - a piedi! - fino a via Akarso Yokusu,
dove dovrebbe esserci un ristorante al 7° piano di
un palazzo da cui potrei godere, allo stesso
tempo, di una cenetta a base di pesce e di una
buona vista da cui fare qualche scatto a Beyloglù.
La via è molto particolare, romantica, con questa
luce calda del crepuscolo e quest’aria carica di
pioggia e di profumi di mare.
Intorno a me molte coppiette si riparano con
piccoli ombrelli dalle prime goccioline di pioggia
e se ne vanno a braccetto.
È molto bello.
Penso che in questo momento vorrei condividere con
Angela questa atmosfera e le calde luci di questo
bel quartiere.
Per ora lo lascio.
Sono solo e senza ombrello.

Torno in hotel a scaricare le spalle dal mio pesante zaino e vado a
mangiare un onesto pollo al curry in una vicina
traversina dell’Istiklal.
È da qui che scrivo.
Poi credo che me ne andrò in camera, per oggi può
bastare.
Istanbul è intensa.



















     lunedì 2 Maggio - day 2 - Galata e Beyloglu ovest

09.15

Sono in camera. Ho fatto colazione in hotel.
Meglio sorvolare. Il grande Monopol Hotel non è
sicuramente famoso per il suo buffet. Da domani
credo che mi cercherò qualche breakfast-bar qua in
zona.

Apro internet. È già un miracolo.

“RAID USA IN PAKISTAN.
UCCISO OSAMA BIN LADEN.
L’AMERICA E IL SUO PRESIDENTE ESULTANO IN FESTA.
NOI NON CE L’ABBIAMO CON IL POPOLO MUSULMANO MA LA
LOTTA AL TERRORISMO NON E’ FINITA.”

Allora:
cerco le sedi dei consolati USA, Inglese e Italiano
sul web.
Ci girerò alla larga.

Tra parentesi, l’ex ambasciata USA è proprio di fronte alla mia
finestra, a circa due metri.
So che per questo motivo negli anni passati il mio Hotel ha avuto
diversi problemi.
Mi chiedo chi potrebbe mai affittare una camera qui
durante gli anni della guerra fredda.
È un po’ come giocare con la roulette russa.
Forse qualche suicida con la febbre del gioco.

12.00
Esco ora dall’Hotel.
Direzione Galata.

18.20
Con le spalle all’ingresso del Monopol per la prima
volta giro a sinistra verso Beyloglu ovest.
Mi ritrovo fra decine di bambine tutte vestite allo
stesso modo, camicetta bianca, gonna e golfino nero,
che sorridenti e concitate si abbracciano e si
salutano all’uscita della scuola.
Molte mamme e qualche papà le aspettano lungo la via.
Le vedono, le chiamano e se vanno. Alcuni su per la scalinata che
porta al tunel, altri glù verso la metro di Sishane.

Oggi è un giorno feriale e anche Istanbul si lavora e si va a
scuola.
La città è se stessa.


Mi piace vivere le città durante le giornate
lavorative, c’è aria di normalità.
Anche i negozi delle vie più nascoste sono aperti,
con i loro commessi che affacendati servono i clienti

o che pazienti aspettano il loro arrivo, fumando di
fuori al sole.
Nelle barberie ci sono uomini che scambiano opinioni
-sulle donne, politiche o sportive - aspettando il
loro turno.
I ragazzi mangiano ai fast-food.
Le strade sono piene di gente e ognuno fa quello che
deve fare, diretto da qualche parte.

Il traffico del centro di Beyloglu è intenso.
Le strade sono strette e ramificate, piene di auto e
camioncini in seconda fila fermi con le quattro
frecce agli incroci, di fattorini che portano pizze o materiali
pesanti in carriola, di turisti inebetiti che guardano in su, poi
indietro, poi la cartina, poi fanno una foto senza impegno né
motivo, poi se ne vanno.

Anch’io come loro.
Mi fermo nel traffico a fotografare con la
compatta piazza Sishane e qualche particolare
della città, come ad esempio le lance a cerniera
che escono dall’asfalto alla fine dei sensi
unici. Puntano all’imbocco dei divieti e lasciano
passare invece il senso corretto.
Imboccare per sbaglio un divieto può essere molto
doloroso a Istanbul.

Mi sento comunque dentro una città occidentale.
Il quartiere di Beyloglu, fondato ai tempi da
commerciati genovesi, lo è.
La piccola piazza Sishane potrebbe essere paragonata a qualsiasi
piccola piazza di Vienna Milano Madrid o Parigi.
Le facciate dei palazzi, qui sulla piazza, sono ristrutturate e
pulite.
Appena dietro però ci sono muri senza intonaco, i cavi elettrici
esterni assomigliano a dei gomitoli di lana abbandonati da due gatti
e l’asfalto è corroso e bucato anche se meno dei marciapiedi.
Noto che la gente del posto si ritrova però in questi spazi, i loro
spazi, e vive qui il quotidiano piuttosto che
nelle aree patinate e turistiche.

La città in questo punto è incoerente, non c’è
amalgama fra spazi turistici e spazi cittadini.









Da piazza Tunel, punto di arrivo della funicolare,
prendo Ilk Belediye e vado verso il punto
nevralgico di questa parte di quartiere. La torre
di Galata.
La vedo da lontano. Imponente e medievale.
Mi immagino la sua espugnazione ai tempi della
conquista turca.
Salgo su.
Non tanto per motivi turistici quanto per capire
meglio la città dall’alto e fotografarla.
Che sono poi i motivi turistici.
Insomma.
11 lire turche è il suo prezzo.
Siccome mi sembra un po’ eccessivo e io sono molto tirchio e incline
a cercare di ottenere sempre sconti a costo di figure barbine chiedo
uno sconto studenti.
Si non sono più studente da un pezzo.
Comunque in un quartiere genovese potranno capirmi, mi dico.
No. Niente sconti per nessuno.
Anzi, mi ritirano il treppiede oltretutto.

La torre non è molto alta, ma considerando che
poggia già sulla cima del promontorio la vista è
interessante.
Purtroppo oggi il cielo non è limpido, in
lontananza vedo tutto un po’ impastato.
Sullo stretto ballatoio si sta stretti. È
ovviamente pieno di turisti che come me fotografano
tutto da ogni punto del perimetro.
Io con lo zaino intralcio il traffico non poco.
All’interno del piano panoramico c’è un ristorante
- e come non potrebbe esserci? - e in cima un
locale notturno.
Istanbul si estende a perdita d’occhio.
Complice la foschia, non se ne vede la fine.
Guardare le periferie a nord e a est e la città asiatica è molto
interessante. Guardare la città vecchia e le sue moschee è bello.
Bene.
Scendo
Scendo e riprendo il mio vecchio treppiedi
dall’inestimabile valore affettivo e lo apro per
fotografare la piazza, che è carina e affollata,
tutto sommato niente di che.
È già passata l’ora di pranzo ma io non ho ancora
fame per cui decido di provare ad arrivare al porto
di Azapkapi e cercare qualcosa da mangiare là.
Scendo per una stradina affascinante insieme a tre
ragazze velate.
In fondo mi ritrovo in una gigantesca ferramenta
all’aperto.
Un quartiere ferramenta.
La gioia del bricoleur.
Il paradiso di Mac Gyver.

Decine, anzi centinaia di negozi e bugigattoli che
mostrano e vendono tutto quello che esiste al
mondo per elettricità, meccanica e giardinaggio.
Per il quartiere girano loschi pusher di pinze e
cacciaviti.
C’è brulichio.
Tutti smontano, rimontano, saldano, tagliano,
accendono, trasportano qualcosa.
Ovunque. Senza fine.
Il quartiere si estende fino al ponte di Ataturk
attorno a un traffico snervante.

Camminare per queste stradine mi ricorda il centro
di Mumbai. Forse un po’ meno fatiscente e saporito.

Comunque di tubi, rubinetti, motori e tagliaerba
quanti ne voglio, ma di un panino o qualsiasi cosa
di commestibile nemmeno l’ombra. Sono quasi le
cinque. Ora la fame si fa sentire e il sole anche.

Arrivo fino al ponte e torno indietro. E dietro c’è
una salita che spaventerebbe un rocciatore.
Quando metto piede sulla cima di Galata sono da
autopsia.
Vado così a fare merenda con un cheeseburgher in un locale sul
finire dell’Istiklal sedendomi in un tavolino al 1° piano. La vista
sulla via non è male. Passa anche una manifestazione diretta a Taxim
che mi pare si batta per i finanziamenti per il cinema. Bravi.
Peccato che il cheeseburgher faccia schifo.
Scrivo queste righe, chiamo Angi a casa che ha un appuntamento dalla
ginecologa - scoprirà il sesso? - e vado in Hotel a fare una doccia.

20.02

La connessione del mio Hotel è basata sulla fede.
Potrebbe esistere, e se davvero ci credi può
darsi anche che si manifesti.
Si vede che io non ci credo abbastanza.

Riesco comunque a chattare brevemente con Yigit,
un mio amico turco che ora vive a Riccione.
Yigit ha sposato Veronica, cara amica e compagna
di scuola, e ora hanno una bellissima bimba dai
capelli oro e dagli occhioni colore del mare.
Yigit mi consiglia un ristorante di Istanbul dove
potrei andare a mangiare qualcosa stasera.
Canim Cigerim. Si trova proprio dietro il Monopol, in via Asmali
Mescit.
Mai consiglio fu più gradito. Ho davanti a me proprio ora dei
fantastici spiedini di carne tenera e saporita accompagnati da
peperoncini gialli sott’aceto, peperoni e cipolle grigliate,
insalata, menta e prezzemolo alla cruda.
La scelta del menù consiste solamente nell’opzione carne o fegato,
poi ci pensano loro. Tutto buonissimo.
È l’occasione per provare anche l’Ayran, questo famoso drink a base
di Yogurt salato con cui qua tutti pasteggiano. Si beve.
Mentre mangio e scrivo, dilungandomi, la fila di ragazzi in attesa
di sedersi a un tavolo comincia a guardarmi storto.
Li capisco. La fame e la gola per questa delizia
può scatenare istinti primordiali.
Mi alzo e pago all’anziano gestore la modica cifra
di 24 Lire Turche.

Giro notturno per Galata a fotografare.








     martedì 3 Maggio - day 3 - dal Gran Bazaar a Kumkapi

14.30

Mi trovo in piazza Beyazit, seduto a un piccolo
tavolo di un chiosco tutto rosso Coca-cola.
Ho davanti l’università di Istanbul.
La piazza è molto bella.
A destra ho la moschea Beyazit Camii, l’aria è
surreale, l’atmosfera rarefatta.
C’è silenzio e tranquillità nonostante la presenza di
parecchi turisti, i fedeli diretti a pregare in
moschea, le squadre di polizia che sorvegliano la
piazza e gli studenti universitari che la
attraversano.
A parte il chiosco in cui mi trovo tutto intorno è in
tonalità di grigio.
Sfuocando intenzionalmente lo sguardo tutto può come
sparire, confondersi.
Molti studenti indossano una divisa: calzoni grigi,
camicia bianca e cravatta rossa rigorosamente
slacciata in segno del fantastico anticonformismo giovanile,
un’omologata trasgressione.
Zaino nero e scarpe bianche.
C’è un abbigliamento istituzionale da seguire, forme di
ricoscibilità e appartenenza sociale molto vive, che in Italia vanno
scomparendo.
Proprio mentre scrivo un debole sole sta iniziando a colorare
leggermente la piazza, a descrivere qualche ombra sfumata.
Sembra che la piazza si animi.
Ne tocco la vita.
Osservarla da un angolo mi sembra una cosa eccezionale, una di
quelle cose che ogni tanto occorre fare.
Stimola una coscienza allargata, dà una visione più vasta di ciò che
siamo.
Ogni piazza in fondo è più o meno simile.
Al di là delle differenze particolari, qui ognuno di noi si sposta,
mangia qualcosa, sgrida i suoi bambini, parla con qualcuno e lavora,
ride e piange e ama.
In fondo siamo solo esseri umani. Semplici.
In questa visione le microscopiche differenze che a volte ci
separano si riducono fino a scomparire.

Il velo che copre il capo di questa madre che sta
comprando un gelato al figlio che tiene per mano,
non è poi importante.
Esisterà prima o poi un intero mondo senza barriere
fisiche né sociali, con chiese e moschee e case e
alberghi e piazze.

Bene, spengo la mia sigaretta e ritorno con il
pensiero da queste utopiche ovvietà.
La piazza però è tornata grigia e ovattata e gli
unici rumori che sento sono il brusio di una
fontanella di acqua marroncina dietro a me e le risa lontane di due
ragazze-immagine vestite uguali che fermano i passanti distratti
proponendo non so cosa.

Questa mattina mi sono svegliato tardi, verso le 9.30 circa.
Ieri sera sono uscito a fotografare in notturna.
Scattare di notte è una cosa che amo.
Oltre che per il risultato, senza dubbio evocativo anche se poco
descrittivo, soprattutto perchè l’atto fotografico in sé è davvero
piacevole e rilassante.
Inoltre inquadrare le architetture di notte,
illuminate artificialmente, stagliate su quei
fondi neri stellati dalle lontane luci
dell’orizzonte è appagante anche tecnicamente.
È necessario un tempo adatto al tempo della
notte, lento e meditato.

In giro per Beyloglu non c’era quasi nessuno,
se si eccettuano i pochi passanti, qualche
clochard e i tassisti.

Comunque, dicevo, questa mattina ho deciso di
lasciare Beyloglu e di venire nella vecchia Istanbul.
Dopo un dolcetto alla mela cosparso di pistacchio e zucchero a velo
e una spremuta d’arancia da Simit Sarayi ho preso il Tunel da piazza
Tunel fino a Karakoy, quindi la metro che taglia
Sultanahmet fino a Beyazit, all’ingresso del
Gran Bazaar.

E sono entrato.
Che il Gran bazaar sia un’istituzione salta
all’occhio. La struttura è affascinante, i
negozi all’interno sono maniacalmente ordinati e
le merci sono di qualità e perfettamente
disposte secondo irreprensibili geometrie.
Non mi ci sono però soffermato a lungo, non ho
fatto acquisti - ci ritornerò senz’altro - e
dopo un té in un bar interno, pagato 4 lire,
sono uscito dal gate di Urukuler.
Come è ovvio i confini del Bazaar sono alquanto
sfumati, nel senso che uscendo dalla struttura
altre centinaia di negozietti e bancarelle si accavallano nelle vie
intorno, adibite perlopiù a magazzini per le merci e piccoli shop di
ogni cosa.

Queste vie sono gremite di uomini di
mezz’età che fanno, per lavoro, i “muli
umani”.
Trasportano sulla schiena, a dorso chino,
aiutati da una piccola struttura in legno,
degli enormi pacchi rivestiti di iuta, dal
bazaar ai camion, dai camion ai magazzini,
dai magazzini al bazaar.
Tanti minieristi all’aperto.
Probabilmente è l‘unico modo per trasportare
merci nel fitto dedalo delle strette e
trafficate stradine del bazaar.
Li vedo fare addirittura la staffetta,
dandosi il cambio in corsa con quei pesanti
carichi.

19.30

Da piazza Beyazit sono sceso per le stradine
attorno a via Gedikpasa verso il mare, fino
Kumkapi.
Qui si può passeggiare per la vecchia
Istanbul, dove si respira l’aria degli
antichi quartieri, abitati per generazioni
nelle antiche case originali ora corrose dal
tempo, fuori dalla patinata aura dei quartieri moderni e turistici.
È affascinante.
Le attività lungo la strada sono sporche e incasinate, lontane anni
luce da quelle delle vie commerciali. Sono per gli abitanti.
I bambini corrono su e giù per le strade. Sono tanti. Molti mi
chiedono di fargli una foto.

Mi fermo a fare due chiacchiere con due
signore che stanno fumando e rammendando
vestiti sedute sul marciapiede. Mi raccontano
di essere Bulgare, di essersi trasferite qua
circa una ventina di anni addietro. Anche una
di loro mi chiede una foto.
Capita spesso che le persone che incontro mi
chiedano di fotografarle. I bimbi lo fanno per
gioco, gli adulti per vanità. Pur non sapendo
cosa ne farò della loro foto, sapendo che
probabilmente non la vedranno mai.

Il quartiere è parecchio sporco.
Incurato. Ma con classe.
Raggiungo Kumkapi e la sua marina.
C’è un piccolo porto di pescherecci e una scia di ristoranti e
pescherie.
Anzi di ristoranti-pescherie, poichè non si capisce dove finisca uno
e inizi l’altro.
Il ristorante è la pescheria e viceversa.

Il pesce - come tutte le cose da vendere in
questa città - è disposto con ordine
maniacale su dei banchi a terrazze dove
l’acqua ricambia continuamente le bacinelle
del pescato. Rigorosamente vivo perlopiù.

Nei ristoranti c’è gente che mangia. Molte
famiglie sedute ai tavoli. Sono le cinque di
pomeriggio.

Il modo di cucinare è quello della cucina
“povera”, pesce grigliato servito con
insalata e verdure di contorno.
Eh. Non posso non prendere un altro Balik Elmek
con un grosso sgombro grigliato.
Decisamente migliore - e dico tutto - di quello
che avevo preso sul ponte di Galata.

Mentre aspetto la preparazione del mio panino
vicino alla griglia esterna, osservo un amico del
griglista che si mangia, una dietro l’altra, le
cozze di una bancarella di cozze.
Queste bancarelle sono ovunque.
Soltanto lungo l’Istiklal ce ne saranno una
decina. Ne ho viste fuori dalle moschee, dentro i
sottopassaggi, fuori dall’uscita della
metropolitana, a fianco delle edicole.

Il tassista gentilmente, forse perchè si sentiva
un po’ osservato, mi chiede se ne voglio provare
una.
Ma scherziamo? Non mi fido delle cozze crude
vendute in strada.
Ma sbaglio. Non sono crude. Il mitilo racchiude una sorta di
arancino di riso. Sono cucinate e preparate una ad una, richiuse nel
proprio guscio e disposte sui banchetti con limoni a spicchi.
La provo.
Una delizia. E sono vivo.

Continuo sul lungomare di Kumkapi.
Sugli scogli ci sono delle lattine e
delle file di palloncini colorati.
Sulla banchina di fronte ci sono invece
dei fucili e delle pistole ad aria
compressa. Piccole giostre lungo tutto il
lungomare.
Subito il tipo mi chiede se voglio
sparare. Sparo a modo mio scattando
qualche foto.

Il lungomare di Istanbul è molto
romantico. Ci sono coppiette sugli
scogli, le immancabili scacchiere sui
tavolini e gli ambulanti che servono té e
dolci tipici.

E pescatori, decine di pescatori lungo tutto il
lungomare.
Comincia a piovere all’improvviso appena arrivo
al molo così torno verso il centro
attraversando il parco che costeggia il mare e
la via dietro.
Mi ritrovo al famoso ippodromo che però è in
pieno restauro. Lo percorro passando a fianco
di questa meraviglia che è la Moschea Blu, giro
a sinistra di fronte a Aya Sophia e mi riparo
sotto il tendone di una ristorante dove il
cameriere, insitendo, mi fa accomodare.
Solitamente eviterei questo posto
decisamente turistico, ma ho bisogno di ripararmi, di un bagno e di una birra.
Il ristorante si riempie per la cena.
Io torno in hotel.




mercoledì 4 Maggio - day 4 - la Moschea Blu e la
filosofia


21.45

 

Ho appuntamento con Klemens in piazza Taxim
alle 9.00.
Prendo la metro a Sishane. È un’esperienza
profonda. Nel senso che ci sono cinque rampe
di scale mobili lunghe come minimo una ventina
di metri l’una. Probabilmente Giulio Verne lo
fece prima di scrivere Viaggio al centro della
terra.

Klemens è un fotografo che collabora con
Trans-Urban da tempo. È stato per tre volte in
Iran e l’anno scorso era in India con me. Fotografa architettura. So
che lavora ancora esclusivamente a pellicola. Una mosca bianca.

Io e Klemens, mentre beviamo un caffè, scambiamo qualche parola
sulla tipologia del nostro lavoro, su Istanbul e ci diamo
appuntamento l’indomani per una escursione fotografica nella prima
periferia della città.

Piove. Il colore della città però non cambia. Dalle terrazze dei
grandi hotel di piazza Taxim fino agli ultimi minareti della stretta
del corno d’oro tutto è grigio. La città ha una triste monotona
bellezza.

Cammino lungo la via fino a piazza Tunel dove mi fermo a mangiare
qualcosa al primo piano di un kebap.
Una zuppa e un roll. Poi un terribile caffè al volo e entro nel
Tunel.

Il Tunel di Galata, una piccola talpa
metropolitana di tre vagoni, fa una breve
tratta sotterranea da Sishane, appunto, a
Karakoy.
Costa 1 Lira e 75, cioè un Jeton, come tutti i
biglietti dei tram di Istanbul, niente
abbonamenti turistici da quel che ho capito, e
permette di scendere ma soprattutto di salire
evitando il pendio. A Beyloglu c’è un’altra
piccola tratta sotterranea, quella che porta da
piazza Taxim a Kabatas, sulla costa est.
Sceso dal Tunel imbocco, invece di uscire
in strada, il sottopassaggio che porta al tram di Karakoy. È da vedere.

Il sottopasso è un piccolo centro commerciale. Anzi togliamo il
piccolo. L’unica differenza con i centri commerciali veri e propri è
che manca il supermercato. Per il resto c’è tutto.
Negozi di Hi-fi, gioiellerie, farmacie e tabacchi,
negozi di ferramenta e giardinaggio, bar e
cartoleria, c’è anche un negozio macrobiotico per
animali e una stazione di ricarica per cellulari.
Ogni vetrina è curata all’inverosimile dove tutto
è esposto con maniacali, insondabili, geometrie.
Una visione razionale e frontale è perfetta. Le
fotografo.
Prendo il tram e scendo a Sultanahmet.
Piove proprio. Non posso lavorare all’esterno e ne
approfitto così per visitare la Moschea Blu.
Con una corsa le arrivo davanti e attraverso il
muro di cinta. Provo subito un grande fascino. La
sua architettura è sottile, volatile. Da lontano
sembra di poterla sollevare, dà una sensazione di
leggerezza e fragilità.
L’ingresso è libero. E non c’è nemmeno troppa
folla, fuori. Mi tolgo le scarpe, le infilo in un
sacchetto di nylon e entro.

Allora, non vorrei passare per superficiale, ma la puzza di piedi è
insostenibile. Guardo al cielo - anche se dovrei guardare alla Mecca
forse - sperando che Allah abbia il raffreddore. Intanto prego Dio
di farmelo venire.
L’interno è buio e affascinante. Ma occorre immaginarla vuota. Tutto
l’ampio spazio interno è riempito dal turismo universale il cui
scopo è, ovviamente, portarsi a casa tutto quel che si può di questo
magico luogo. Fotograficamente intendo.
Centinaia di macchine fotografiche catturano souvenir di realtà di
ogni cosa possibile.
Decine di flash al secondo scattano su ogni singolo frammento di
cupola su ogni intarsio del rosso tappeto su ogni sottile filamento
e su ogni lampadina dell’enorme lampadario circolare, su ogni
intarsio delle poche balaustre che separano i fedeli.
Questa visione d’insieme non mi tramette nulla di contemplativo,
anzi. Ma sono stupito quando vedo una giovane ragazza accanto a me
che da un angoletto nascosto prega il suo Dio con devozione,
comletamente estraniata dalla pressante folla
intorno a lei.
Esco.
Mi rimetto le mie scarpe da tennis e vado a
osservare la moschea dal di fuori.
Qui i turisti sono pochi.
E questa moschea è straordinaria.

Continuo dirigendomi, a pochi passi, alla
basilica di Santa Sophia. Non può passare
inosservata, è imponente, massiccia.
Il luogo dedicato alla sapienza.
Umana, o divina?
È un nodo che vorrei sciogliere, ma non ora.
Non mi piace vedere tutto in una volta.
Mi incammino allora verso l’interno di
Sultanhamet, passando davanti alla cisterna
della Basilica dove la fila è davvero
scoraggiante.
Sultanahmet dopo questi tre luoghi di grande
interesse è i suoi locali.
Ristoranti, pizzerie e kebap, disco e pub,
tappeti, gioielli e monili, oro argento e
ferro battuto, sete e filati e tutto ciò che
abbia anche il minimo sapore d’oriente che
possa appagare la voglia e l’esigenza delle
migliaia di passanti e dei loro portafogli.
Ma, mano a mano che ci si allontana dalla
zona calda anche Sultanhamet diventa un
luogo.
Qua e là, nascosti dai cartelloni e dalle
luci, puoi vedere qualche casa, un piccolo
alimentari, una impolverata libreria di libri
antichi di un saggio libraio di nome Ibrahim.

Seyatname
Hatirat
Tarih
Tarihce-hayat

 

Diari di viaggio
Memorie
Storia
Memorie di Vita

Entro.
La piccola tana della vecchia sapienza.
Ibrahim è amichevole e simpatico. Non è Turco ma Curdo. E abita a
Istanbul da sempre, mi dice.
Ha voglia di parlare.
Mi spiega come Istanbul, porta d’oriente e occidente allo stesso
tempo, luogo di passaggio per eccellenza, raccoglie e accoglie,
dentro di sé, innumerevoli varietà di persone di popoli e di
identità.

Ma non è questo il problema, dice.
Questo è evidente.
Ma questa poliedricità lo crea, il problema.
Istanbul non ha un’identità, mai l’ha avuta e mai
la avrà. Poichè è profondamente scissa,
frammentata.
Ha molte facce e ogni faccia è un blocco, chiusa.
Fai qualche passo a Istanbul e sei in un luogo
diverso da quello in cui stavi pochi minuti prima.
Il problema è la mentalità, continua.
Non c’è una mentalità condivisa.
Il pensiero di Istanbul è vago, nascosto, nessuno
lo ha mai visto, non si trova.
Istanbul è un corpo eterogeneo, diviso.
Frankestein fatto luogo, penso.
Cicatrici invisibili vengono oltrepassate ogni secondo.

Ibrahim nega che siano le persone a fare Istanbul.
È Istanbul a fare le persone che la vivono.
È il paradosso della città.

La chiacchierata è molto piacevole. Chiedo a Ibrahim
se lo posso ritrarre in mezzo ai suoi libri.
La morbida e fredda luce della vetrata lo divide in
due. Scisso come la sua città.

Lascio la libreria ringraziandolo e mi dirigo verso
Alemdar. Mi ritrovo di colpo in una via
trafficatissima.
Serie di negozietti l’uno attaccati all’altro
descrivono le ramificate vie del quartiere.
Vendono tutti le stesse, identiche cose.
Anelli, argenti, pendagli, bracciali, pietre varie e
vetri colorati.
Sono decine e decine.
Vedo lo stesso anello, un piccolo fiore con incastionate delle finte
pietrine nere, in almeno una dozzina di shop.
All’ultimo lo compro.
Se mai doveste aprire un negozietto qui scegliete l’ultimo.

Mi diverto a chiacchierare con i commercianti. Bastano 3 parole a
fargli capire che sono italiano e iniziano a farmi domande nella mia
lingua.

Dopo un lungo giro arrivo al mercato egiziano, famoso per le sue
spezie di ogni tipo e qualità, con tutti i tipi di Curry che si
possono immaginare e il pregiatissimo e introvabile zafferano
iraniano pistillo per pistillo.
30 lire turche per un grammo. Ma mi assicurano che non dovrò usare
più di 10 pistilli a risotto. È un affare, mi pare. Ne compro due,
non posso lasciare Istanbul senza.
Poi un piccolo spuntino con una lasagnetta tipica ripiena di
formaggi, e sono sulla sponda di Galata.

Attraverso il suggestivo ponte - dove i pescatori
incuranti della pioggia persistono nell’alzare e
abbassare continuamente la loro canna quando non
hanno da sciogliere i nodi - e salgo a Galata sulla
antica scala di Kamondo alla sinistra del ponte.

Vado in Hotel, una doccia mi aspetta.
Scarico le schede delle macchine e cerco un
ristorantino tranquillo dove scrivere di oggi.

23.55

Sono sull’Istiklal. Dopo aver mangiato qualcosa
mentre scrivevo sono uscito sulla via.

Il flusso di gente che la attraversa è molto più
rado. Ai margini della strada ci sono soltanto
blocchi di polizia, venditori di ombrelli, di cozzeri
piene e bagnate e di castagne da cui si spande una
pesante nube di brace.
I passanti percorrono la via diretti in nessun luogo
senza incrociare minimamente gli sguardi.
La mia solitudine inizia a farsi sentire. Sta forse
cambiando la mia percezione?
Probabilmente Sartre potrebbe dirmi qualcosa al
riguardo. Ma credo sia morto.
Comunque non ho il suo numero.

Domani lavorerò con Klemens.


























     giovedì 5 Maggio - day 5 - It’s Analog! - Tarlabasi.


19.40

Questa mattina mi sveglio con un sms di Angela che
dice di non stare bene. Mmm.
Mi infilo in fretta un paio di Jeans e scendo giù
a chiamarla mentre bevo un caffè e una sorta di
succo d’arancia con poca arancia. La connessione
della hall funziona.
Angi non sta bene e io sono preoccupato. La
sentirò dopo, in mattinata.
Risalgo in camera, scarico al volo le foto di ieri sera,
preparo lo zaino e scendo di sotto ad aspettare Klemens.
Arriva puntuale come un tedesco con la sua Fuji automatica.
Il nostro programma è semplice.
Da quattro giorni stiamo fotografando Istanbul in due
modi del tutto autonomi sviluppando due progetti
diversi.
Io, oltre a fotografare l’architettura urbana e
suburbana con particolare attenzione agli spazi di
frontiera, come punti di accesso, barriere e confini,
scatto anche il collegamento fra architettura e il
suo uso, ibridando con una sorta di “street”.
Klemens invece, con una camera automatica a pellicola
120, lavora in modo rapido e istintivo su luoghi e
persone che incontra lungo i suoi percorsi,
lasciando che sia l’automatismo della sua camera
(ritardo di scatto, auto-flash, ecc.) a pesare
maggiormente sulla fotografia.
Così, il nostro lavoro di oggi sarà scegliere un
quartiere particolare che interessi entrambi e che nessuno abbia già
frequentato, quindi percorrere insieme le sue strade e i suoi spazi,
fotografandoli con il filtro dei nostri diversi approcci e
prospettive.
Decidiamo di andare alla moschea di Fatih e da lì dirigerci verso le
antiche mura che cingevano la città vecchia e che chiudono il
quartiere di Draman.
L’idea è di farci lasciare dal tram alla fermata di Aksaray, ma la
perdiamo. Scendiamo così dopo due stop a Findikzade e a piedi
iniziamo il nostro percorso salendo verso la moschea di Fatih mentre
Klemens mi racconta un po’ di quando, appena laureato in
architettura, decise di fare il fotografo.
Ecco la moschea. Un luogo di culto grandioso. È l’ora della
preghiera perciò proseguiamo. D’altro canto il nostro tema comune
non include le moschee fini a se stesse, ma piuttosto, semmai, la
vita che le gravita attorno.

Subito dopo Fatih camii ci si apre davanti come una
rivelazione il vero quartiere.
Sembra di essere distanti chilometri dalle vicine
vie di grande comunicazione piene di traffico e
centri commerciali.

Qui si respira un’aria diversa, tutto è calmo,
spaziozo e intimo allo stesso tempo.
“There are good vibrations”, come dice Klemens.
Da una stradina sopraelevata ci fermiamo a guardare
una partita di calcio di ragazzini. Con noi si
ferma anche qualche anziano signore, appoggiati con
l’immancabile sigaretta e il Tasbeeh sgranellato in mano con
abitudinaria noncuranza.
Dietro noi, per la via, passano numerose donne, quasi tutte coperte
dal tradizionale Chador nero.
Il quartiere è senza dubbio molto religioso e
tradizionalista ma, nonostante sia del tutto evidente
la nostra occidentalità, il nostro sguardo e il
nostro saluto è sempre cortesemente e caldamente
ricambiato.
Va beh, è senz’altro normale, anche perchè in questi
pochi giorni che ho vissuto Istanbul ho sempre
toccato con mano un’indiscriminata cortesia delle
persone. Sono io che vivo probabilmente troppo di
stereotipi da televisione, televisione italiana poi,
una delle migliori.

Vediamo, in lontananza, alle nostra destra, un enorme
edificio rosso che sovrasta il paesaggio.
Abbiamo scoperto poi che si tratta del liceo Greco di
Fener, il quartiere greco di Istanbul, antichissimo e
talmente caratteristico da essere insignito della
protezione come Patrimonio dell’umanità. A Fener c’è tra l’altro il
quartier generale della Chiesa Ortodossa, il Patriarcato Ecumenico
di Costantinopoli, che si trova proprio qui a Istanbul, non in
Grecia come si potrebbe pensare, ma all’interno del quartiere. Il
Patriarca Bartolomeo I, il secondo gerarchicamente più importante
dei cinque Papa, dopo quello di Roma, potrebbe essere seduto ora
sulla sua poltroncina d’oro.

Io e Klemens entriamo a visitare qualche minuto una antica chiesa
bizantina con dentro stupendi mosaici sulla volta principale. Entra
con noi anche una coppia di turisti italiani che una volta dentro,
nonostante l’evidente cartello di non fotografare usando il flash,
lo usa. Io mi vergogno, Klemens, da tedesco inflessibile,
giustamente li ammonisce. Il flash ne deteriora l’oro.

Usciti da lì ci lasciamo letteralmente smarrire nel fitto dedalo di
viuzze strette e scoscese, fotografando ciò che ci attrae.
Questo tipo di lavoro è affascinante. È un bel lavoro.
Cerchiamo di non accavallare i nostri soggetti, ciò che scatta lui
io lascio, e viceversa.

Notiamo come sia presente, ovunque, una bella telecamera di

Qui hanno paura e bisogno di protezione. Ci
chiediamo se e quanto sia pericolosa la città e i
suoi sobborghi. Certo siamo in ogni caso al centro
di una grande metropoli, anche se qui, davvero, non
sembra.
Tutto è ridotto di intensità, gli spazi vitali sono
larghi, il quartiere è molto vivibile, ha l’aria
della provincia.

Ma la lontanza dal caos del turismo e dalla città
occidentale inizia a farsi sentire quando, dopo
circa tre ore che saliamo e scendiamo per queste
stradine, ci viene fame.

Cerca che ti cerca, dapprima scartando quei posti che, diciamo così,
non ci sembravano proprio amici, poi non scartando
proprio più niente poiché niente c’è, dobbiamo
aspettare continuando a camminare quasi un’ora,
prima di trovare qualcosa che fa al caso nostro.
Proprio di fronte a un piccolo bar e a un panificio,
un fantastico baracchino di kofte ambulante gestito
da un anziano e simpatico signore che non capisce
una sola parola di inglese.
Ma la mimica è una lingua universale. E la fame
pure.
Ci invita a sederci a un tavolino esterno del bar
mentre ci prepare due splendidi panini con polpette
di salsiccia. Credetemi non esagero quando dico -
alcuni dei panini più buoni mai mangiati.
Mentre con brama e godereccia lentezza addentiamo
quel pane fresco del panificio all’angolo e quelle
verdure dai colori così intensi il ragazzo un po’
suonato del market di fronte ci va a prendere due
Ayran per completare il quadro.
Un piccolo ristorante a cinque stelle in multiproprietà! Tutto il
piccolo rione si prodiga per noi e
mentre mangiamo scambiamo anche due
chiacchiere - usando italiano inglese
turco tedesco mimica facciale e
gestuale - su Istanbul, Padova e
l’Italia.
Alla fine ci servono anche un ottimo
Cay e un caffè turco.
Che non bisogna assolutamente
mescolare, come faccio io prima di
bermi un etto di fondi.
I nostri amici ridono.
Lasciato riposare è meglio. Anzi
buono, si.
È una questione di tempi.
L’occidente va in fretta e ha
l’espresso.
L’oriente contemple invece, mentre con pazienza attende la lenta
discesa del caffè.


Bene. Vorremmo fermarci in questo posto
amichevole, ma dobbiamo proseguire. Ci
alziamo e facciamo una foto d’obbligo
per ricordarci la strana e simpatica
cricca che ci ha eccezionalmente
sfamato e ci incamminiamo verso
Darussafaka caddesi dove, a pomeriggio
inoltrato - sono quasi le 17.00 - c’è
una certa frenesia dovuta probabilmente
ai preparativi della festa del venerdì.
I negozietti rionali sono molto attivi,
le donne acquistano carni, verdure e
vestiti dalle bancarelle sparse un po’
ovunque, le ragazze tornano da scuola
scherzando fra loro e nella concitazione
già si respira aria di festa.
È molto affascinante, vale senz’altro la pena intraprendere una
passeggiata in questi quartieri per godersi la vita
rionale di tutti i giorni, dove si vedono le
attività quotidiane e le abituali usanze della
città.
Pensare che la maggior parte dei turisti non va
oltre la cinta di Sultanahmet, Cemberlitas e
Eminonu.

Noi camminiamo ancora un po’ e ci fermiamo al calar
della sera vicini alle mura di Topkapi, senza però
arrivarci. La giornata è stata lunga e decidiamo di
tornare, dopo circa 150 fotografie scattate in
digitale e 6 rullini medio formato, verso casa.

Lascio Klemens sul tram per Kabatas e salgo con il
Tunel a Sishane.
I quartieri occidentali sono stati una scoperta.

 

23.15

Sono appena uscito da Tarlabasi.
Mi sono addentrato leggermente nel
quartiere per fare qualche scatto
con una usa e getta automatica.
Tarlabasi è povera. Qui si trovano
ancora, per la maggior parte, le
vecchie case di legno. Le strade
sono animate dalle corse dei bambini
e sceletri di motorini truccati
sfrecciano schivando i gatti randagi
fra pozzanghere e calcinacci.
Qui sono ammassati i lavori
illegali, le politiche sotterranee,
le lotte per la sopravvivenza, i
reietti sociali. Ogni città ha un
posto dove relega queste realtà, che
convivono e si sostenengono a vicenda.

Qui è Tarlabasi.
Esco dalla vertigine della metro di
Taxim e attraverso la piazza.
Percorro poi Tarlabasi Bull per
trecento metri, la strada è popolata
di night club di ultim’ordine e
ragazze e ragazzi in vendita che
aspettano fumando fuori dai portoni.
Entro nelle strette vie del
quartiere.
È molto vivo, tutto si svolge in
strada e tutti si conoscono.
Fuori dai bar anziani signori giocano
a backgammond con gli immancabili
bicchieri di Cay e scambiano commenti
con i gruppetti di ragazzi seduti sulle selle dei motorini e con gli ambulanti di scarpe sparsi sul marciapiede. Passo a fianco di sporchi kebap, vetrine di parrucche e barbieri aperti, bancarelle di cozze e chiromanti che leggono i tarocchi su scatole di cartone rovesciate.
Qualche gatto si ferma sulla porta a guardarmi mentre passo e
due transessuali mi chiedono una foto.
Ciò che mi piacerebbe fare è
fotografare le persone del quartiere.
Ritratti frontali su fondi continui,
decontestualizzati.
Creare un piccolo archivio della
gente di queste vie.
Per farlo occorre entrare nella vita
del quartiere, farne parte,
conoscerlo. Lavorare soprattutto su
questo. Da estraneo potrebbe essere
rischioso, sia per la riuscita del
progetto a causa della fiducia che la
persona ritratta deve avere verso chi
la fotografa, sia per sé.
Il quartiere mi sembra molto chiuso
all’esterno, e probabilmente lo è.
Scatto una foto a una buia piazzetta dall’alto di un cavalcavia e
scendendo vedo due uomini venirmi incontro.
Due signori sulla sessantina in abito scuro. Mi interrogano con
qualche frase in turco che io ovviamente non riesco a capire. Ma il
senso si. Gli spiego in inglese che sto fotografando semplicemente
l’architettura del quartiere per un mio progetto personale. Ma ora
sono loro a non capire le mie parole e a intuirne però il
significato, visto che, dopo avermi fissato ben bene, il più anziano
mi fa come un cenno d’approvazione, dice qualcosa all’altro tizio e
lentamente se ne tornano entrambi sulla loro strada.
Mi sembra saggio fare altrettanto.
Accendo una sigaretta e risalgo la scalinata, la via di barbieri e
fattucchiere, gli anziani ancora al loro the e a una nuova partita,
i night e le puttane, e attraverso il Tarlabasi Bull.
Da questo lato della larga strada tutto è un brillio di piccole luci
sfavillanti e gli autisti aprono sportelli a caviglie in tacchi alti
e a borsette Louis Voitton.
Un confine invisibile divide due mondi opposti.

È tardi.
Me ne vado a mangiare delle ottime
Kofte al Teorito Café, dove mi ero
seduto la sera del mio arrivo e dove,
solo per questo, mi sento un po’ a
casa.
Il cameriere mi saluta gentilmente, mi
offre lo stesso tavolo e si preoccupa
di accendere e girare verso di me la
salsiccia elettrica.
Fa freddo. Mi dice.
Si, fa freddo.





     venerdì 6 Maggio - day 6 - Hidden frontiers.

21.35


Mi sveglio male. Sono circa le 9.00.
Mi sveglio con un tremendo mal di testa e mi
sento raffreddato.
Sapevo che ieri, in giro con Klemens, avrei
dovuto comprarmi una sciarpa.

Istanbul è grigia. Fuori piove.
Ma io esco lo stesso, ovviamente. Sono
ottimista, preparo lo zaino con l’attrezzatura,
prendo il mio gitzo e sono fuori.
Voglio andare a visitare e a fotografare un “Site”, che è una forma
di quartiere residenziale particolare.
I Site - o Sitesi - sono agglomerati di palazzi o grattacieli
residenziali costruiti, recintati e sorvegliati in zone periferiche
della città.
Mi interessa documentare anche questa tipologia abitativa, per me
insolita.

Porto prima a sviluppare il rullino con le
fotografie di ieri sera in un negozietto
Fujifilm a Sultanhamet, faccio qualche foto al
parco di fronte e ad Aya Sophya che oggi è
bellissima e prendo poi quel treno per Yuma.
No, scherzo. Per Aksaray.
Da lì cambio con la metro - lontanissima - per
Havalimani e mi fermo a Zeytinburnu, che è una
bella stazione. Proseguo quindi con la metro blu
verso Cevislibag, dove scendo.

 

Cevislibag è a una sola fermata dalle mura antiche di Topkapi e a
pochi passi da un complesso di circa una dozzina di alti
grattacieli, un Site appunto. Il Tercuman Sitesi.

Tercuman Sitesi sorge praticamente in mezzo
al niente, in una’area non ancora molto
edificata, spazi larghi lasciano allargare
lo sguardo.
Il complesso è imponente e il paragone è
forse un po’ forzato, ma mi dà l’idea di
una Las Vegas nel deserto.
Ci arrivo a piedi attraversando qualche
scuola, una piccola moderna moschea, un
piccolo bar e qualche negozietto
incastonato alla base dei palazzi intorno
al Site, alti non più di tre o quattro piani
e decisamente fatiscenti rispetto a lui.
Mi viene comunque da pensare che il grosso
delle economie locali ruoti intorno al Site.
Ha smesso di piovere ed è uscito, forse per
la prima volta dal mio arrivo, un bel sole brillante.
Anche un po’ troppo. Taglia il mio soggetto con ombre nette e
profonde lasciandomi silouettes in
controluce che mi complicano il
lavoro.
Comincio con un approccio distante,
inquadrando il complesso per intero e
contestualizzandolo con la strada che
lo tange.
Poi mi avvicino e faccio un giro
nelle strade esterne, fra i palazzi
bassi, fra i bambini che giocano e le
madri che li osservano dai terrazzi
mentre stendono il bucato
approfittando del sole.
Si sta bene.
Il quartiere è evidentemente
popolare, attorno ai palazzi tutte le
auto parcheggiate sono utilitarie, alcune delle quali decrepite.
E di fronte c’è lui.
L’ombra del grattacielo più vicino oscura la via dove mi trovo.
Mi avvicino.
Tutto il perimetro del complesso è accuratamente recintato con una
invalicabile cancellata di acciaio a finali angolati.
Ma ci metto un po’ ad accorgermene. Si, perchè questa cancellata,
questa netta divisione, questo muro fisico e sociale è ben nascosto,
quasi perfettamente mascherato da una fitta siepe che ricopre
completamente la cinta.
Si nasconde la percezione di esserne fuori. O di esserne dentro.

All’ingresso c’è una guardiola sorvegliata da cui viene concesso
l’ingresso ai residenti.
Io provo.
Ho sulle spalle il cavalletto allungato con la camera fissata sulla
testa, un sorriso e una faccia da culo.
Dentro la guardiola c’è soltanto una guardia, è un ragazzo, e non
parla inglese.

Mi fa però capire che l’accesso non è
consentito, e soprattutto che la camera
crea problemi.
Io insisto. Cerco di spiegargli -
praticamente in fonetico - che sono
interessato soltanto alla visione
generale del complesso e non a
fotografare persone e abitazioni e che
non recherò alcun danno.
Gli strappo un sorriso e vedo che è
interessato alla mia macchina
fotografica. Forse è un amatore.
Mi apre.
Ovviamente non mi allontano ma lo
coinvolgo in qualche scatto
panoramico dell’area interna, un misto
fra un parcheggio, un cortile e un parco, con i percorsi modellati
in pietra e una ricca e curata vegetazione di agave, piccole palme
e alberelli colorati.
Le auto parcheggiate sono lussuose e di grossa cilindrata.
Il ragazzo di guardia ritorna verso la guardiola, mi lascia solo e
ne approfitto per fare due passi.
Noto come tutti gli spazi interni siano predisposti.

Dopo il parcheggio ci sono, ai margini
del giardino, una serie di gazebo,
ognuno con il suo cestino in muratura,
vuoto e pulito, a fianco.
Al piano terra di ogni palazzo ci sono
delle attività commerciali. Minimarket,
parrucchiere, bar.
A ogni angolo di ogni edificio due o tre
telecamere spiano in ogni direzione.
Anche ogni portone ne ha una. Anzi due,
una interna e una esterna.
Mi guardo in giro e riesco a vederne
decine.
Inizio a sentirmi osservato e mi chiedo
come dev’essere la vita qua dentro
mentre vedo passare due guardie - diverse dal ragazzo che mi ha
aperto - in sella a due quad che perlustrano il quartiere.
Ma è necessaria tutta questa sicurezza?
Io devo dire che fuori di qui tutta questa paura non l’ho provata.

Mi rendo conto improvvisamente di essere dentro una sorta di
carcere. Una piccola prigione al contrario, da cui si può uscire, ma
dove non si può entrare. Una fortezza mascherata da oasi dove “i
buoni” sono dentro e il controllo esercitato è rivolto verso fuori.

Mentre una profonda tristezza mi invade al pensiero che fra qualche
decennio questo sarà il futuro, scenario metropolitano apocalittico
degno di Carpenter e del suo 1997, passo in mezzo al parco giochi,
fra le altalene e i girelli, fra mamme e bambini, e alla zona
sportiva dove, fra dritti e rovesci, fra palleggi e tiri da tre, gli
uomini di domani giocano nel loro piccolo mondo privato.


Esco dal Site e ritorno in centro,
a Beyloglu, passando prima a
ritirare le fotografie sviluppate
di ieri.
Faccio un salto in Hotel a lasciare
l’attrezzatura, prendo con me solo
la compatta e vado alla galleria
Apel, dietro il grande e prestigioso
liceo Galatasaray.
Prima però salgo - con uno stretto
e affollatissimo ascensore -
al settimo piano di un palazzo
sull’Istiklal sulla terrazza di un
famoso narghilè-bar dove prendo un
the bollente godendomi un panorama mozzafiato sul bosforo.
Questo sole, probabilmente per caso ma per me così raro, rende
Istanbul diversa, la riveste di una vitalità raggiante.

Galleria Apel è davvero un bel
posto, un appartamento su due
livelli e un piccolo giardino
interno. È molto curata e sta
esponendo una personale di un
artista turco, direi uno scultore
anche se le sue opere somigliano a
quadri, che lavora con fili di
ferro intrecciati.
Nella galleria mi colpisce un’opera
però, una fotografia scattata dalla
torre di Galata dove i tetti delle
case sono il montaggio geometrico,
mosaicato, di altre piccole
fotografie di tetti e case.
La rappresentazione
dell’eterogeneità della città.
Davvero un bel lavoro. Non ricordo
l’autore purtroppo.
Fuori dalla galleria, quando esco, sui gradini della scalinata per
il liceo un ragazzo e una ragazza velata si baciano
appassionatamente. L’amore mi commuove sempre. Un’altra opera
d’arte.




     sabato 7 Maggio - day 7 - Gold Horn & Art.

18.20

Sono arrivato all’ultimo giorno del mio
diario. Il tempo, scrivendo e
fotografando, è volato.
Sto scrivendo dalla camera del mio
Hotel. Fra circa un’ora raggiungerò il
gruppo di lavoro organizzato da xchange,
composto da professori e
studenti di diverse facoltà italiane,
che lavorerà per una settimana a un
workshop di architettura collaborando
con l’università di Istanbul.
Sono arrivati oggi nel pomeriggio.
Io resterò a Istanbul ancora due giorni,
poi lascerò la città.
Da questa sera non sarò più solo, quindi.
Così, questa mattina, ho deciso di dirigermi verso una delle zone
della città che non ho ancora visitato e che vorrei vedere: il corno
d’oro e i suoi quartieri lungo la costa occidentale.
In realtà è una scelta più o meno casuale obbligata dal poco tempo
che mi rimane, la città è grande e vorrei vedere
molto di più, vorrei risalire la costa del bosforo
fino al dipanarsi dell’area metropolitana e
l’imbocco del mar nero, vorrei avere un giorno per
vedere Sisli e le zone di riqualificazione a nord
di Beyoglu, vorrei girare la città asiatica.
Vorrei vorrei.
Insomma, questa mattina mi sveglio presto, e
attraverso a piedi l’Ataturk bridge diretto verso
la sponda ovest, dove so che è possibile prendere
un traghetto che risale il corno.
Il cielo è terso. Un sole potente riscalda e brilla
sui vetri dei palazzi e sui barbagli sfolgoranti
dei riflessi del fiume. E lo smog del
trafficatissimo ponte di Ataturk è palpabile.

Prima di prendere il traghetto mi perdo per circa
un’ora nelle tortuose viuzze sovrastate
dall’imponente moschea di Suleymaniye. Sono
utilizzate da commercianti di etnia Rom che
stendono a terra ammassi infiniti di cianfrusaglie
d’ogni genere.
Cammino fra una accurata selezione di tutti gli
scarti di oggetti e pezzi di oggetti vecchi o rotti,
e vecchi e rotti, buttati. Tutto acquista una nuova vita?

Mi dirigo verso la stazione dei traghetti di Eminonu, fermandomi
prima in un chiosco sulla Ragip Gumuscala a bere un the.

Ci sono uomini seduti, da soli, che semplicemente lasciano passare
il tempo. Bevendo cay, fumando sigarette turche.

Prendo il mio traghetto, a solo 1,75
lire turche. Passo le fermate di Fener e
Balat parlando con una famiglia
originaria di Istanbul in vacanza qui.
Ora vivono a Miami, in Florida. Mi
raccontano della loro nostalgia per
questa intricata città, e della loro
infanzia passata nel quartiere greco. Li
lascio sulla strada per la funiculare di
Eyup, dove siamo sbarcati. La prenderò
anch’io - sale sopra il ripido cimitero
che guarda dall’alto tutta la città - ma
solo dopo aver camminato per qualche via
interna.

La vista che si gode dal cimitero di Eyup è straordinaria. Mi siedo
al tavolino di uno dei tanti bar sul ventoso parapetto e mi godo un
toast al salame, un altro thé e il panorama, mentre scrivo qualche
appunto sul diario. Ridiscendo la collina e salgo su un’esperienza
straordinaria: un bus.
Il biglietto si fa a bordo e spero comprenda un’assicurazione sulla
vita. L’autista è un folle. Sorpassa da ogni lato a velocità da gara
in mezzo al traffico. Mi sento sulle
giostre, il Matterhorn mi creava meno
vuoto allo stomaco.
Arrivo però sano e salvo e traballante.
Scendo ai margini di Balat, e dapprima
costeggiando il fiume, poi passando più
all’interno, ritorno a Eminonu
attraversando Fener.
I due quartieri, Balat e Fener, sono
essenzialmente molto conservatori,
storici bacini rispettivamente della
popolazione ebraica e di quella greca di
Istanbul.
Sui loro sanpietrini vecchi di secoli,
nelle loro ripide salite e discese, e a
fianco delle facciate centenarie delle tantissime case in legno -
spesso diroccate - sono passati i popoli della storia d’occidente e
d’oriente.
Qui si respira l’atmosfera affascinante e particolare che irradiava
Fatih.
Arrivo a Eminonu con la consapevolezza che difficilmente tornerò nei
quartieri occidentali di Istanbul nei prossimi giorni o nei prossimi
anni. Ma contento di averne percorso le antiche strade.

Salgo sul tram per Beyloglu e attraverso per l’ennesima volta il
Galata Bridge. Si sta facendo tardi e voglio tornare in hotel a
scrivere di oggi prima di uscire a cena con il gruppo. Finalmente
vedrò Nariman e i ragazzi.

Prima però passo a visitare
l’Istanbul Modern, museo d’arte
moderna e contemporanea. Scendo così
a Tophane e lo raggiungo.
Merita senz’altro una visita meno
frettolosa della mia, che mi
soffermo troppo a contemplare il
“teschio di scimmia che danza sul
tempo di Sarkis”, a capire quale
genio abbia attraversato Avse Erkmen
quando ha immaginato il suo
“Elephant”, e a escogitare ogni
trucco impossibile per suonare
qualche tasto del “Piano sollevato
da tre palloncini” di Ozkaya.


Esco dal Modern, sazio. Il cielo di Istanbul è tornato di un grigio
morbido e intenso.
Non mi dispiace.
È il cielo di Istanbul.